Giustizia, Diritto e …Giurisdizione: parliamone
Pubblicato da avvocato Primo Francescotti il 1 luglio 2020
Con l’obiettivo di esprimere alcuni semplici concetti ed, ovviamente, senza la pretesa quindi di esaurire l’argomento per la sua natura suscettibile invece di una trattazione complessa, già infatti oggetto di approfondite analisi compiute da eminenti e noti autori di diritto, di filosofia, di sociologia e di altre discipline, mi accingo a scrivere queste brevi note suggeritemi dall’esperienza pratica quotidiana.
Mi è capitato qualche volta per i più svariati problemi, anche non posti come questioni legali, di sentir dire: “Questa legge non è giusta”.
Tale affermazione potrebbe sembrare contradditoria, essendovi la tendenza tanto diffusa, quanto sotto certi aspetti, apprezzabile, a identificare ciò che è legittimo (cioè conforme alla legge vigente) con ciò che è giusto (cioè moralmente condivisibile).
Il “diritto” naturale
Tale convinzione però è errata. Vivremmo probabilmente in un mondo eticamente migliore, se il diritto si identificasse sempre con la giustizia.
Orbene, per giustizia può intendersi un comune sentire insito in ogni uomo che i filosofi del diritto definiscono diritto naturale (es. per chiunque in generale, almeno in Europa, è proibito l’omicidio), mentre per diritto positivo può intendersi l’ordinamento giuridico e cioè il complesso di norme giuridiche vigenti destinate a regolare i rapporti fra gli uomini di una determinata società.
E’ evidente la differenza fra diritto naturale (giustizia) e diritto positivo vigente in questo semplice esempio: se il titolare di un diritto non lo fa valere entro un determinato periodo di tempo, perde definitivamente il diritto stesso (prescrizione, oppure decadenza).
Se l’interessato doveva conseguire in forza di quel diritto, un risultato importantissimo e non ha fatto valere in giudizio tempestivamente quel diritto con conseguente perdita irrimediabile dello stesso perchè magari ignorava che occorresse esercitarlo entro un determinato termine, ritiene ingiusta la perdita del diritto stesso.
Tale conseguenza, stante la situazione creatasi (di compiuta prescrizione, o di decadenza) è invece legittima, cioè conforme al diritto vigente (anche se certamente, dal punto di vista dell’interessato, non moralmente giusta).
Con altra espressione può dirsi che vi è ovviamente differenza fra il cosiddetto diritto naturale (senso innato di giustizia) e il diritto positivo e cioè il complesso di norme giuridiche (scritte) vigenti, valide ed efficaci dotate della essenziale caratteristica di essere cogenti e “obbligatorie” per i destinatari delle stesse.
La teoria di Hans Kelsen
Secondo la teoria del diritto sostenuta, tra gli altri, da Hans Kelsen (noto filosofo del diritto, nel volumetto che ho trovato pubblicato da Einaudi, alla fine degli anni ’60) sulla “dottrina pura del diritto” è quella secondo cui il diritto è un quid da considerarsi semplicemente come insieme di norme cogenti non influenzabili da giudizi soggettivi di valore che prescinde dalla morale, dalla religione, da tutte le altre discipline.
Nel volume edito da Etas-Kompass “Teoria generale del diritto e dello stato” lo stesso autore attribuisce al diritto una propria autonomia come scienza autonoma, separata da tutte le altre discipline, dalla morale, dalla religione e considera le norme giuridiche, come si è detto, come regole dotate soltanto della caratteristica di essere cogenti.
“Dal punto di vista di un positivismo giuridico conseguente, tanto il diritto quanto lo stato non possono essere conosciuti in modo diverso che come un ordinamento coattivo della condotta umana, sul cui valore morale o di giustizia non si esprime alcun giudizio. Non si può quindi concepire giuridicamente lo stato nè più nè meno di come si concepisce il diritto”. Non sembra ovviamente condivisibile tale impostazione formalistica criticata, tra gli altri, anche da Edwin Schur in “Sociologia del diritto” ed. il Mulino, in quanto le conseguenze circa l’applicazione di tale teoria potrebbe portare a sistemi totalitari, o a conservare lo status quo a discapito del progresso e della stessa giustizia.
“Diritto” come strumento?
Del resto la certezza del diritto che è un corollario della suddetta impostazione non è in effetti forse il frutto di una “ideologia” intesa nel significato di “strumento” destinato a perpetuare lo status quo?
Secondo autori che hanno un approccio sociologico al diritto, quest’ultimo deve intendersi come “sovrastruttura” in analogia con il con il concetto marxiano del termine: il diritto è quindi un insieme di norme giuridiche cogenti cui è “sottesa” la società e quindi per la valutazione dello stesso, non può prescindersi da giudizi di valore.
Anche e soprattutto l’applicazione del diritto e cioè l’esecuzione della funzione giurisdizionale presenta gravi problemi.
Modestamente ritengo che un obiettivo da perseguire per una corretta interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche dovrebbe essere quello di tenere un atteggiamento estremamente rigoroso nell’applicazione dei criteri ermeneutici e d’altra parte, nell’incertezza dell’interpretazione, e, soltanto in tal caso, preferire la soluzione che contemperi il soddisfacimento dei criteri del diritto positivo con quelli di un’accezione più avanzata delle norme giuridiche (cui è sottesa una realtà in divenire) ispirata al senso di giustizia sostanziale, in una parola all’equità (per altri al diritto naturale) che ovviamente muta con il mutamento della società intesa come complesso di valori in continua lenta evoluzione. Ulteriore questione connessa a quelle precedenti è quella del linguaggio: le modalità “esoteriche” di espressione dei giuristi (come di altri specialisti) sono dettate da esigenze, da necessità insite nella materia e ad essa strettamente connaturata o sono invece davvero utilizzate per perpetuare l’ignoranza delle leggi? Tale problema non è di facile soluzione.
Pubblicato su “23 Marzo”, 1 dicembre 1990